Ragazzi di valore dal 1958
Giovani sempre, perché i valori non tramontano mai
L’Ardor è una storia da raccontare: è la storia di ragazzi di valore. Già, abbiamo usato l’ausiliare giusto. Tutti “hanno” una storia: bella o brutta, grande o piccola, interessante oppure – il più delle volte – inutile. L’Ardor no: l’Ardor “è” una storia. L’Ardor si racconta da sola. Perché la palla è rotonda ma, contrariamente a quanto sosteneva un grande del calcio che fu, non è vero che rotola sempre da una parte sola. Rotola, invece, in tutte le direzioni, tante quante sono le vite degli uomini, dei ragazzi di valore, che l’Ardor l’hanno creata, nutrita, cresciuta, allevata, amata. Rotola in almeno otto direzioni o forse mille, poco importa, tanto alla fine torna al centro. Eccola, la storia dell’Ardor.
I ragazzi di valore che hanno fatto la storia
I ragazzi di valore imparano in fretta. Dopo ogni gol, fatto o subito, dopo ogni soddisfazione, dopo ogni paura per un passo in fallo, dopo ogni sforzo per rimanere fedeli alla propria storia, dopo ogni valore difeso con i denti, la palla torna sempre al centro e si ricomincia a correre. Se ci pensate, è la storia dei grandi. Quelli che non importa da dove partono né dove arrivano, ma che in tanti anni non si sono mai stancati di mettere la palla al centro, come se fosse la prima volta. E intanto, a forza di rimettere la palla al centro, questi ragazzi di valore hanno costruito un mondo, un’anima che si è fatta storia. Nel 1957, otto giovanotti piantarono quattro pali in un prato in salita e sconnesso dietro la cappella dell’Assunta, in borgata Madonna, a San Francesco al Campo. L’anima incominciò a farsi storia da lì, da quattro pali. La traversa non c’era. Stefano Benni, nella sua impareggiabile cronaca della partita di “pallastrada”, la traversa almeno idealmente la indicava: corrispondeva all’altezza alla quale il portiere riusciva a sputare. L’Ardor no, nemmeno quella. L’Ardor nacque, insieme a quegli otto ragazzi di valore, senza un campo, senza un pallone di riserva, senza un allenatore, senza un massaggiatore, senza un dirigente e senza un presidente. Vi pare che potesse importargliene qualcosa, di una traversa?
Basta una lampadina, per chi sa vedere oltre
Ma andiamo con ordine, altrimenti la storia brontola. E i ragazzi di valore anche. Quando l’Ardor non era ancora l’Ardor, al termine di una di quelle prime partite, con otto giocatori, quattro pali, nessuna traversa e dell’erba troppo alta, una figura asciutta fasciata di nero chiamò quei ragazzi e li invitò a bere un bicchiere nella propria cucina. La figura, ovviamente, era don Giuseppe Bonetto – arrivato sette anni prima controvoglia in quel lembo di terra argillosa del Canavese da cui fuggire il prima possibile, ma di cui presto si innamorò alla follia – e la cucina era la canonica della cappella dell’Assunta. Ed ecco che l’Ardor si fece anima e storia, proprio sul tavolo di quella cucina. Un atto vero e proprio, un regolamento da sottoscrivere, qualche legge non scritta ma per questo ancora più inviolabile perché gli uomini responsabili (e i ragazzi di valore) i patti li rispettano.
Ed è proprio questo il punto, perché insieme all’Ardor quel gruppo di giovani stava diventando un gruppo di uomini e lì avrebbero trovato un’importante scuola di vita. Ogni venerdì a rapporto da don Bonetto per le strategie da seguire per far crescere la squadra. Ogni venerdì una quota da versare per autofinanziarsi. Ogni venerdì la consacrazione di due principi basilari: amicizia e giocatori del posto, altrimenti non si va da nessuna parte.
Intanto, si cominciò con un innovativo impianto di illuminazione, in modo da poter giocare e allenarsi anche dopo il tramonto. Una vecchia lampada piantata in una scatola di wafer e un cavo collegato alla canonica, per un originale “occhio di bue” che finalmente illuminò il mare d’erba alta in salita. E poi tutto il resto. Che non serve raccontare perché, appunto, è la storia stessa. È l’Ardor stessa.
Anni di crescita, di amicizia, di nuovi giocatori, di tornei. Fino al 1967, l’anno del grande balzo, con l’iscrizione al campionato di terza categoria. Le biciclette e qualche Vespa per andare in trasferta, pochi mezzi a disposizione (le traverse nel frattempo erano arrivate, ma non c’era molto di più), ci si cambiava da Braida, nel retro del bar, e poi si raggiungeva a piedi il campo militare del Centro, e ci si rinfrescava alla fontana della piazza. Eppure quel campionato, il primo, l’Ardor lo vinse subito. Ragazzi di valore anche sul campo, appunto. Ma anche questo conta poco, ai fini della storia, perché chiunque l’avrà letta già mille volte. E perché chiunque può vincerlo, in fondo, un campionato. La storia, quella con l’anima, ci richiama all’ordine e a raccontarne l’essenza.
L’essenza del gruppo
E l’essenza dell’Ardor, il leitmotiv della sua storia, il suo destino, forse la sua maledizione ma ancor più la sua benedizione è questa: tutto ciò che ha ottenuto, l’Ardor, se l’è costruito. Anche in questo caso, attenzione ai termini: non se l’è guadagnato, se l’è proprio “costruito”. Materialmente, fisicamente. Da quel primo campetto in salita, livellato a “pic e pala”, alle trasformazioni successive del campo di allenamento, dalle recinzioni all’impianto d’illuminazione (quello vero e proprio, successivo alla scatola di wafer), dalle infrastrutture del campo del Centro a qualunque opera ci fosse da realizzare, permesso da chiedere, finanziamento da trovare, c’erano sempre la fatica e l’impegno di quei ragazzi di valore e di don Bonetto, che si rimboccavano le maniche e lavoravano sodo.
Perché è vero che – come diceva sempre don Bonetto di fronte ad ogni difficoltà – “la Madonna ci aiuterà”, ma se le si dà una mano le cose si fanno più in fretta. Ed è qui, proprio in questo punto, che la storia dell’Ardor e la storia della comunità che vive attorno alla cappella dell’Assunta si incrociano e diventano un tutt’uno.
L’Ardor, per finanziarsi, diventa il motore della borgata, riporta in vita la vecchia festa e la organizza per vent’anni. Ma non basta, organizza gite e iniziative varie, mentre i suoi atleti diventano anche attori e mettono in scena spettacoli nel teatrino della frazione. Ardor, don Bonetto, il paese: una storia sola e ricca di valori, che ora, però, ci chiede di chiudere il cerchio.
E il cerchio si chiude tornando sempre al punto di partenza, a quei valori ai quali i ragazzi di valore giallorossi non hanno mai smesso di guardare e alla vocazione storica del gruppo di San Francesco al Campo: formare altri ragazzi (e ragazze!) di valore, aiutare i piccoli e i giovani atleti a crescere, nello sport e nella vita. Sarà perché il calcio vero, il calcio pane e salame di un tempo, ormai si trova soltanto in provincia. O sarà perché la palla rotola in mille direzioni, ma poi va rimessa al centro. Solo così le storie vanno avanti e fanno battere il cuore.
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